26.10.12

Storie d'Avventura


Sono spesso andato in giro, tra amici e conoscenti, a cianciare sul come e il perché non esista più il romanzo d'avventura o sul come, nel caso ancora esista, sia stato svilito di tutte le sue attrattive primordiali.
Mi sono imbattuto spesso in persone che, al riguardo, pensano che oggi non ci sia più bisogno di questo tipo di letteratura. "Grazie a Dio", sottolineva addirittura qualcuno. In generale, a quelle persone, auguro di rimanere incastrate con le dita nei cardini del loro ineluttabile bagaglio culturale. A tutti gli altri con i quali ancora si può intavolare una discussione seria in tal senso, dico che la lettura del libro La Super Raccolta di Storie d'Avventura ha scatenato in me di nuovo una riflessione profonda sull'argomento.

Per ora mi preme riportare il testo che compare sulla quarta di questo volume, originariamente scritto negli anni '40 da José Luis Borges come prologo al romanzo L'Invenzione di Morel dell'amico Adolfo Bioy Casares.
Magari se a dirlo è Borges, e badate bene che lo ha detto negli anni '40 e non di recente, qualche testa in più ci crederà. Vi racconterò poi del libro, ma questo piccolo prologo era davvero necessario.

Verso il 1880 Stevenson osservò che i lettori britannici disprezzavano un po' le storie avventurose e sostenevano che fosse segno di grande abilità lo scrivere un romanzo privo di trama o con una trama infinitesima, atrofizzata. José Ortega y GassetLa deshumanizaciòn del arte, 1925 – cerca la ragione del disprezzo notato da Stevenson e a pagina 96 dichiara che: “è molto difficile che oggi si possa inventare un'avventura capace di interessare la nostra sensibilità superiore”, e a pagina 97, che questa invenzione “è praticamente impossibile”.
In altre pagine, in quasi tutte le altre pagine, difende il romanzo “psicologico” e sostiene che il piacere che si può ricavare dalle avventure è inesistente o puerile. Questa è, senza dubbio, l'opinione comune del 1882, del 1935 e anche del 1940. Alcuni scrittori (tra i quali mi piace annoverare Adolfo Bioy Casares) sostengono sia ragionevole dissentire. Riassumerò qui i motivi di questo dissenso.
Il primo (il cui aspetto paradossale non intendo né sottolineare né attenuare) è il rigore intrinseco del romanzo d'avventura. Il tipico romanzo “psicologico” tende a essere informe. I russi e i discepoli dei russi hanno dimostrato fino alla noia che niente è impossibile: suicidi per troppa felicità, assassini come forma di benevolenza, persone che si adorano fino al punto di separarsi per sempre, delatori per fervore o per umiltà... Alla fine questa libertà totale equivale al disordine totale. D'altro canto il romanzo “psicologico” intenderebbe essere anche romanzo “realista”: preferisce che ci dimentichiamo del suo carattere di artificio e fa di ogni inutile precisione (o di ogni languida oscurità) un ulteriore tocco di verosimiglianza.
Ci sono pagine, ci sono capitoli di Marcel Proust che sono inaccettabili come invenzioni: senza saperlo ci rassegniamo a essi come ci rassegniamo davanti all'insipidità e al vuoto della quotidianità. Il romanzo di avventure, invece, non si propone come una trascrizione della realtà: è un oggetto artificiale, nessuna parte del quale è priva di giustificazioni. Il rischio di incorrere nella merà varietà sequenziale dell'Asino d'oro, dei viaggi di Simbad o del Don Chisciotte gli impone una trama rigorosa.
Ho presentato un motivo di ordine intellettuale: ve ne sono altri di carattere empirico. Tutti dicono sottovoce e con tristezza che il nostro secolo non è capace di tessere delle trame interessanti: nessuno si arrischia a dimostrare che se questo secolo vanta una supremazia sui secoli anteriori, si tratta della supremazia delle trame.
Stevenson è più appassionato, più vario, più lucido, forse più degno della nostra incondizionata amicizia rispetto a Chesterton, ma i suoi intrecci sono inferiori. De Quincey si tuffò nel cuore del labirinto nelle sue notti di meticoloso terrore, però non seppe trasformare la sua impressione di “unutterable and self-repeating infinities” in favole paragonabili a quelle di Kafka. Osserva giustamente Ortega y Gasset che la “psicologia” di Balzac non ci soddisfa: lo stesso vale per le sue trame. A Shakespeare e a Cervantes piace l'idea antinomica di una fanciulla che, senza perdere nulla della sua bellezza, possa spacciarsi per un uomo; questa idea con noi non funziona. Mi ritengo libero da ogni forma di superstizione per la modernità, da ogni illusione che ieri sia inutilmente differente da oggi o sarà differente da domani; però sono del parere che nessun'altra epoca dispone di romanzi con trame tanto ammirevoli quanto quelle de Il giro di vite, de Il processo, de Il viaggiatore sulla terra, o quanto questa che ha creato a Buenos Aires Adolfo Bioy Casares.
Le storie poliziesche – altro genere tipico di questo secolo che non sarebbe in grado di inventare trame – narrano di fatti misteriosi che in seguito vengono giustificati e spiegati da un evento ragionevole. In queste pagine Adolfo Bioy Casares risolve felicemente un problema forse ancor più difficile. Dispiega tutta un'odissea di prodigi che paiono non ammettere altra chiave che la allucinazione o il simbolo, e li decifra appieno grazie a un solo postulato fantastico ma non soprannaturale. Il timore di incorrere in rivelazioni premature o parziali mi impedisce di prendere in esame la trama e la delicatissima sapienza della esecuzione. Mi sia concesso solo dichiarare che Bioy rinnova letterariamente un concetto che Sant'Agostino e Origene confutarono, che Louis Auguste Blanqui studiò e che Dante Gabriele Rossetti espresse con una musicalità memorabile:
I have been here before
But when or how I cannot tell:
I know the grass beyond the door,
The sweet keen smell,
The sighing sound, the lights around the shore.
In spagnolo sono poco frequenti o addirittura rarissime le opere di immaginazione ragionata. I classici utilizzarono l'allegoria, le esagerazioni della satira e, occasionalmente, la pura incoerenza verbale. Le sole opere recenti di questo genere che ricordi sono un racconto di Las fuerzas extranas e un racconto di Santiago Dabove, ingiustamente dimenticati. L'Invenzione di Morel (il cui titolo allude ad un altro inventore di isole, a Moreau) porta nelle nostre lande e nel nostro idioma un genere nuovo.
Ho discusso con l'autore i dettagli della trama, l'ho riletta; non mi pare un'imprecisione o un'iperbole qualificarla come perfetta.

Jorge Luis Borges

7 commenti:

Giulio ha detto...

Prezioso.

GiovanniMarchese ha detto...

Sottoscrivo! Ce ne sarebbero di cose da unire e sviluppare. Per ora mi limito ad aggiungere questo bel tomo alla mia lista dei desideri su aNobii! :)

LUIGI BICCO ha detto...

@ Giulio:
Succulento, si. Almeno per chi ha a cuore il discorso.

@ Giovanni:
A breve parlo del libro e lo farò in modo particolareggiato, parlando di tutti e venti i racconti. Decidi poi, se metterlo nel carrello della spesa :)

GiovanniMarchese ha detto...

Eh già! C'è questa concezione malsana nella cultura e nella forma mentis italiana per cui la letteratura debba avere un ruolo "pedagogico", un compito "istruttivo", un fine "morale" e un tono serioso. Da qui ne discende che la letteratura cosidetta di genere (fumetto compreso) non siano degni di adeguata considerazione. Secondo me, la letteratura deve rispondere in prima istanza al principio del piacere. Se poi dopo la lettura resterà anche altro, che ben venga. Anche perchè quando la letteratura sale in cattedra diventa di una noia mortale. L'insegnamento non può imporsi a nessuno.

LUIGI BICCO ha detto...

@ Giovanni:
Sono molto d'accordo. Ma non credo sia una cosa esclusivamente italiana, anzi. Ho letto qualche giorno fa una vecchia intervista a John Steinbeck che diceva che la letteratura vera era finita con il suo romanzo, "Furore", del 1939. E che dopo tutti avevano preso spunto dalla letteratura francese che aveva il vizio di raccontare poco e male. E l'ha detto Steinbeck, eh. Un premio Nobel per la letteratura. Mica pizza e fichi :D

GiovanniMarchese ha detto...

E' un po' quel che succede nel mondo del fumetto dove si pensa a torto che per fare buoni fumetti sia sufficiente trattare argomenti importanti, seri e di scottante attualità, magari delle biografie di personaggi famosi morti in circostanze tragiche e esemplari quando invece prima vengono una buona sceneggiatura d'azione e ciccia e dei bei disegni per raccontarla. Ma che lo dico a fare? Noi queste cose le sappiamo bene.

LUIGI BICCO ha detto...

E meno male che lo sappiamo. E meno male ancora che tanto, il fatto che lo sappiamo noi, a poco serve :D

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