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25.11.16

Gli Amici di Eddie Coyle


Sfogliato in lingua originale e poi recuperato da una bancarella nella vecchia edizione Mondadori (tradotta più o meno alla carlona, diciamo, ma purtroppo l'edizione del 2005 di Einaudi sembra esaurita in ogni dove), Gli Amici di Eddie Coyle è il libro più celebre del procuratore distrettuale americano (e poi giornalista di cronaca nera) George V. Higgins.
Higgins ha scritto in tutto una trentina di romanzi e un paio di raccolte di racconti (ti avevo parlato qui del suo Cogan, in cui avevo trovato cose buone e cose molto meno buone), ma nonostante il successo in Patria e all'estero, in Italia, di suo, si è letto davvero pochissimo.

Celebrato da Elmore Leonard come il migliore crime novel della storia (tanto che Raylan lo regala a mo' di staffetta al collega Tim Gutterson nell'ultimo episodio di Justified) e pure da Tarantino, che da uno dei personaggi di questo libro ha preso in prestito il nome per la sua Jackie Brown, Gli Amici di Eddie Coyle è un romanzo dalla trama complessa ma dallo stile asciutto (che più asciutto non si può) che vede come protagonisti c
riminali di mezza tacca, mafiosi, rapinatori di banche, informatori e poliziotti.


Eddie Coyle, conosciuto nel giro con il nomigliolo "Eddie le dita" (la chiusura delle dita della mano sinistra in un cassetto, punizione per un affare andato a male, è artefice della nascita di una nuova serie di nocche), è un pesce piccolo che smercia e rifornisce armi alla malavita di Boston.
Un gruppo di affiliati alla mafia locale si è messo in testa di rapinare banche con uno schema rodato e ben preciso e ha bisogno di nuove armi e questo vuol dire più lavoro per Eddie, che a sua volta si rivolge ad un fornitore sicuro, Jackie Brown. Eddie, però, viene arrestato per contrabbando di alcolici e piuttosto che finire in prigione per anni, decide di diventare un informatore, ritrovandosi al centro di un rischioso triangolo tra l'FBI, il suo fornitore di armi e i rapinatori di cui sopra.

George Vincent Higgins visto dall'illustratore Pablo Garcia.

Ho trovato qui un Higgins molto diverso da quello letto altrove, con la stessa capacità di infondere le vicende di humor nero e con la stessa voglia di giocare al massacro con i propri personaggi, ma che, attraverso un taglio delle sequenze ridotto all'osso, è riuscito a creare una fittissima rete di inimitabili dialoghi (l'intero romanzo ne è composto per l'80% almeno) che tengono incollati il lettore alle pagine. Realistici e taglienti come pochi, questi dialoghi traggono forza dalla capacità innata dell'autore di riuscire a parlare in modo diverso a seconda del personaggio in scena. Un poliziotto parla come un poliziotto, un criminale come un criminale, un uomo spaventato come tale e un tamarro come un buzzurro qualsiasi.
Ora ho capito perché, insomma, nonostante non sia molto noto fuori dagli Stati Uniti, Higgins sia riconosciuto comunque come un autore così forte e fondamentale per il genere crime.

Se ti piace leggere dialoghi, piuttosto che lunghe e discettate pagine di descrizioni, Gli Amici di Eddie Coyle te lo devi leggere per forza.

P.S.: Urgerebbe ora la visione del film omonimo del 1973 firmato da Peter Yates con Robert Mitchum e Peter Boyle.

20.7.16

Legend


Davvero non si capisce perché film come questi passino in sordina, a favore delle roboanti e vuote produzioni hollywoodiane. Nemmeno ricordavo fosse passato al cinema, l'anno scorso.

Legend è un film scritto e diretto da Brian Helgeland (sceneggiatore e/o regista, tra le altre, di pellicole quali Payback - La Rivincita di Porter, L. A. Confidential, Mystic River, Man on Fire e The Bourne Supremacy), tratto dal libro del 1972 The Profession of Violence: The Rise and Fall of the Kray Twins di John Pearson.
Come da titolo, si narrano qui le gesta dei gemelli Kray, Reginald e Ronald, i leader della più potente organizzazione criminale dell'East End di Londra negli anni '50 e '60. Apprezzati soprattutto per la loro gestione di svariati locali notturni, frequentati anche da parlamentari, uomini d’affari e note personalità dello spettacolo (si narra del loro rapporto con Frank Sinatra che si esibì più di una volta da quelle parti), i due fratelli divennero parecchio celebri, all'epoca, tanto da essere fotografati da David Bailey e intervistati dalla BBC (se ti interessa la loro storia, Il Post ne parla QUI).


Il problema è che mentre Reggie cercava di costruire un impero cercando di lasciare meno cadaveri possibile lungo la strada, Ronnie, a cui venne poi diagnosticata una schizofrenia paranoide, era assolutamente imprevedibile e più volte compromise gli "affari" di famiglia con alcuni gesti sconsiderati e improvvisi colpi di testa.

Il bello di questo film, in ogni caso, è che ad interpretare il doppio ruolo dei gemelli Kray è un solo attore, Tom Hardy, che per l'occasione sforna un'altra ottima prova mettendo in mostra tutta la sua ecletticità (che tra Bronson e The Dark Knight Rises, sta diventando un vero esperto nella definizione di personaggi sociopatici dentro e fuori le mura di una prigione).
Una solida performance dell'attore, insomma, che riesce a mettere a segno l'ennesima, riuscita interpretazione.

Il resto del cast all'opera vede anche la giovane Emily Browning nelle vesti della moglie di Reggie, un incanutito Christopher Ecclestone in quelle di un ostinato detective di Scotland Yard, il grande Chazz Palminteri in quelle di un mafioso italoamericano in visita a Londra e l'irriconoscibile Paul Bettany nel ruolo (misteriosamente non accreditato, seppur breve) del leader della gang rivale a quella dei Kray.



Legend in realtà non riesce a raccontare poi troppo dell'ascesa al potere dei gemelli, riprendendo tutta la storia dall'insolito punto di vista della moglie di Reggie. Decisione forse discutibile in quanto poco, se non pochissimo, emerge dell'imponente background inglese di quegli anni o degli effettivi atti criminosi dei protagonisti della vicenda, se non in un paio di scene appena.

Tutto è lasciato insomma allo sguardo magnetico di Tom Hardy che con la sua sola elegante presenza, che per questa parte ha ricevuto una candidatura ai premi Oscar come miglior attore protagonista, riesce a riempire le pagine di un intero script qui e lì macchiato da qualche momento piatto (e non aiuta il fatto che la pellicola vada al di là delle due ore).

Da vedere anche solo per questo, insomma.

P.S.: Un "più" sul registro va anche ad una meravigliosa colonna sonora che, tra le altre, raccoglie le performance di Booker T. & M.G.'s, The Meters, la Starsound Orchestra, Santo & Johnny e Martha Reeves & The Vandellas.
Un "meno" grosso come una casa va invece al doppiaggio italiano che per l'ennesima volta (la tredicesima, addirittura) affida la voce di Hardy ad un nuovo doppiatore (Giorgio Borghetti, in questo caso, che non sembra troppo a suo agio nella parte).





29.4.16

Fargo stagione 2, come si fanno certe serie tv


Alla fine della prima stagione di Fargo, avevo espresso l'opinione che si trattasse di una delle serie più belle degli ultimi quindici anni, ma anche il timore che la seconda dovesse appunto fare i conti con un'eredità troppo importante e con una serie di personaggi particolarmente carismatici (Lorne Malvo su tutti). Adesso che ho visto anche la seconda, posso dire che Noah Hawley, creatore della serie ispirata al film dei fratelli Coen, ha portato a casa un altro brillante successo.

Sul cosa sia davvero Fargo, lui stesso si è espresso così:
«Fargo non è un luogo, è uno stato mentale. È una vera storia criminale dove la realtà è più strana della finzione e i buoni devono affrontare qualcosa di orribile.»

Ambientata nel 1979 negli stessi dintorni della cittadina di Luverne, in Minnesota, la storia narra stavolta della faida tra la famiglia mafiosa dei Gerhardt e quella più grande e strutturata di Kansas City. Di mezzo ci finiscono i coniugi Ed e Peggy Blomquist e gli agenti della polizia di Stato incaricati di indagare sulla vicenda, lo sceriffo Hank Larsson e il suo genero, l'agente Lou Solverson (padre di Molly Solverson, una bambina di sette anni che diventerà poi la poliziotta protagonista della prima stagione).




Una delle cose belle della serie è l'estrema cura nella caratterizzazione dei personaggi, con tempi e modi che anche qui funzionano a meraviglia. Da una parte abbiamo i Gerhardt composta da Otto, spietato capofamiglia ridotto in stato vegetativo da un ictus, da sua moglie Floyd e dai loro tre figli: Rye, Bear e Dodd, quest'ultimo impaziente di assumere la guida della famiglia con l'aiuto di Hanzee, tirapiedi indoamericano al suo servizio.
Dall'altra la mafia di Kansas City tra i quali componenti vedremo più spesso in azione il filosofeggiante Mike Milligan e i suoi guardaspalle, i taciturni gemelli Kitchen.



L'altra cosa bella è che in quanto serie tv, Fargo ha sempre cercato, in queste prime due stagioni, di scoperchiare il vaso di Pandora dei borghesi, vittime designate si, ma a loro volta capaci poi di inenarrabili sconcezze. Indagare sull'uomo qualunque, insomma, è un pallino fisso della produzione e mentre l'anno scorso il ruolo era di Lester Nygaard (magistralmente interpretato da Martin Freeman), questa volta è il turno dei coniugi Blomquist.

Ed è un macellaio in procinto di sollevare l'attività del suo datore di lavoro, desideroso di avere figli e una casetta con i fiori alle finestre, mentre Peggy è una svampita parrucchiera che desidera ardentemente una vita diversa. Entrambi assisteranno ad una serie infortunosa di eventi che da semplici paesani li porterà a diventare improvvisati e maldestri "fuorilegge", toccando picchi di grottesca follia.


In generale, infatti, per ammissione dello stesso Hawley, le atmosfere si rifanno al film originale ma anche ad un altro paio di meravigliose pellicole firmate dai Coen, Crocevia della morte e L'Uomo che non c'era, soprattutto per quanto riguarda le atmosfere e l'irriverente humor nero tanto caro ai due registi. Ma di citazioni ce ne sono tante (personalmente mi è parso di coglierne da I Soprano, Non è un Paese per Vecchi e Twin Peaks).

Infine un applauso va sicuramente agli attori che se da una parte hanno potuto beneficiare di una direzione di alto livello, dall'altra sembrano essere riusciti a calarsi completamente nei rispettivi ruoli.
Tra questi vanno sottolineati il canuto Ted Danson (CSI - La Scena del Crimine), un serafico Patrick Wilson (Watchmen, Prometheus) e una bravissima Kirsten Dunst invecchiata e imbolsita ad hoc per un ruolo che si è cucita addosso sfiorando la perfezione (e te lo dico io che per l'attrice in questione non ho mai provato particolare simpatia).

E nemmeno ti sto a dire quanto sia potente la colonna sonora (minuto 03:32, please).

Poi Jesse Plemons (Black Mass, Il Ponte delle Spie), Jeffrey "faccia da schiaffoni" Donovan (protagonista della serie tv Burn Notice), Jean Smart (Le Regole del Gioco, 24), l'attore nativo americano Zahn McClarnon (Into the West, Longmire) e la giovane Cristin Milioti (How I Met Your Mother, The Wolf of Wall Street). Menzione speciale, infine, ad un buffo e tronfio Bruce Campbell che in un episodio interpreta Ronald Reagan nel mezzo della sua campagna presidenziale.


In definitiva, la seconda stagione di Fargo merita parecchio. Moltissimo. Rispetto alla prima, per buona parte degli episodi sembra mancare la figura di riferimento, il vero "cattivo" di turno. A parte qualche eccezione, i personaggi dalla parte sbagliata della linea tendono a filosofeggiare troppo o a mostrarsi degli eterni caproni. Per fortunata, nell'ultimo terzetto di episodi viene improvvisamente fuori il lato più oscuro (o la vera natura) di uno di essi che diventa da quel momento lo spaventoso protagonista destinato a giocarsela alla pari con Lorne Malvo nella testa dei fan. 

Si, la serie tv Fargo si conferma come una delle novità televisive più fresche e meglio realizzate degli ultimi anni. Assolutamente da vedere. Anche se, alla fine, mi chiedo cosa c'entrassero davvero gli alieni.









28.4.16

Black Mass, come NON si fanno certi film


Diretto da Scott Cooper e scritto da Mark Mallouk, Black Mass è un thriller drammatico basato sul libro Black Mass: The True Story of an Unholy Alliance Between the FBI and the Irish Mob scritto da Dick Lehr e Gerard O'Neill che a sua volta riporta la vita di Whitey "Jimmy" Bulger, il secondo criminale più ricercato d'America (quando il primo era Bin Laden).

Bulger è stato uno dei più pericolosi boss di Boston che, contattato dall'FBI che gli propose di collaborare per arrestare la famiglia mafiosa degli Angiulo, finì per fornire poche notizie, spesso circostanziali, e sfruttare invece i suoi contatti al Bureau per togliere di mezzo i propri nemici. Scomparso in seguito al declino del suo impero a metà degli anni '90, fu latitante fino al 2011 (alla bellezza di ottant'anni), quando fu arrestato, processato e condannato a due ergastoli. Sulla sua storia, ti rimando ad un breve riassunto che Il Post pubblicò all'epoca dell'uscita del film nelle sale.

La pellicola firmata da Scott Cooper (Crazy Hearth, Il Fuoco della Vendetta) è venuta alla ribalta prima di tutto per il cast sontuoso che è riuscita a mettere insieme: Johnny Depp, Joel Edgerton, Benedict Cumberbatch, Kevin Bacon e Jesse Plemons. E poi è stata parecchio chiacchierata anche perché Depp, nel ruolo del protagonista, ha effettivamente sfoggiato una delle sue interpretazioni più intense.


Ci sono gli anni '70, la corruzione, le amicizie e le crudeltà tipiche di certi contesti che più che dai fatti veri e propri, ci sono state riportate da capolavori cinematografici di gente come Scorsese e Coppola.

Purtroppo, però, sul film non c'è molto altro da dire. Il più grosso difetto riguarda proprio il disimpegno nel caratterizzare il contesto criminale: al di là di poche note appenna accennate sulla vita privata di Bulger e delle sue imprese criminali, sembra di vivere in un mondo parallelo a quello reale, al sicuro dai rischi del mestiere. Bulger vive una guerra di strada riportata a chi guarda solo tramite le parole dei suoi luogotenenti o dagli uomini dell'FBI (che rubano la scena forse troppo spesso al boss). E a poco servono, a mio modo di vedere, un paio di terribili scene violente o i tentativi di "umanizzare" il protagonista con la questione dell'incidente del figlio (da quel momento bellamente dimenticato in ospedale per tutto il resto del film).


Un distacco sommario e inopportuno da quelle che dovrebbero essere le tematiche portanti e la fredda dinamica nel raccontare la "carriera" del criminale (che qui si "limita" ad ammazzare chi si pone sulla sua strada, ma sempre all'interno del suo stesso clan, senza una minima strategia), fanno di Black Mass una pellicola abbastanza trascurabile di cui poco o nulla rimane dopo la visione. A parte, come detto, la buona prova di Johnny Depp (che per la terza volta interpreta un criminale realmente esistito dopo Blow e Nemico Pubblico) e del sempre elegante Benedict Cumberbatch (che interpreta il fratello di Bulger, un politico che ha avuto un certo peso proprio a Boston come Senatore dello Stato del Massachusetts).


Un inferno ovattato e senza problemi, insomma, che dà anche l'impressione che la vita di Bulger non valesse davvero la pena di essere raccontata.

Riflessione a latere: non so quanto siano "veri" gli efferati omicidi descritti nel film, ma devo dire che ultimamente la tendenza di certo cinema è quella di voler raccontare la crudeltà di alcune scene, o la spavalderia di certi personaggi, attraverso violenti omicidi commessi alla luce del sole, a volto scoperto e davanti a decine di testimoni (e in Black Mass succede almeno un paio di volte). A me questa cosa fa sempre un po' incazzare, perché viene da chiedersi chi sarebbe tanto stupido, se non una persona a cui non importano le conseguenze, da mettere a rischio la propria impunità per capriccio. Non certo ad un boss che sta cercando di costruire un impero, mi dico. E per capirlo basta rifarsi agli altrettanto crudi ma molto più realistici "modus operandi" utilizzati dai personaggi di Quei Bravi Ragazzi o I Soprano.
Situazioni del genere oggi non solo stemperano l'aspetto realistico della vicenda, quindi, ma sono da considerarsi (quasi) pura fantascienza.

29.7.15

Fargo stagione 2, il trailer che promette molto bene, nonostante tutto


Ok. Forse ho esagerato. Quando poco tempo fa ti ho parlato della prima, meravigliosa stagione di Fargo (QUI), avevo detto che della seconda mi sarebbe fregato poco perché non ci sarebbe stato Lorne Malvo.
Ora però che la FX ha appena sguinzagliato in giro per la rete il trailer della seconda stagione, mi sento di poter dire che un occhio glielo darò più che volentieri. Anche solo per come sembrano essere riusciti a trasformare (in meglio, sembra) attori che non sono proprio nelle mie corde come Ted Danson e Kirsten Dunst.

Anche le pietre sanno che sarà ambientata sempre in Minnesota, nella città di Luverne, ma nel 1979. E che il collegamento con quanto già accaduto (ai giorni nostri) sembra essere solo l'agente di polizia Lou Solverson, padre di Molly Solverson, vice sceriffo nella prima stagione.

Lorne Malvo continua a non esserci, naturalmente, ma sembra comunque molto, molto promettente. Sperùma.

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