20.7.15

Il mio nome è Legione

Di Roger Zelazny ti ho già accennato qui non molto tempo fa. Ti avevo detto che ti avrei parlato anche di un suo particolare romanzo che stavo leggendo. Ed eccoci qui.
Il Mio Nome è Legione (My Name is Legion, 1976) è una delle novelle forse meno note di Zelazny, anche perché non è propriamente una novella. Si tratta infatti di tre racconti che hanno per protagonista un uomo senza nome. O meglio, un nome ce l'aveva, ma adesso non conta più. Ora di nomi ne ha parecchi, quanti ne vuole, perché ha fatto in modo che la società si dimenticasse completamente di lui. Quando ha preso piede il progetto della Banca Dati Centrale per la registrazione di tutti gli individui (qualcosa di molto, molto simile all'attuale concetto di internet), il nostro uomo ha avuto la possibilità di bissare i controlli e far perdere così la propria identità all'ombra di miliardi di dati. Ed è per questo che oggi un tipo del genere fa gola a molti. Non lasciando tracce torna comodo a chi, come il misterioso Don che lavora per la seconda agenzia investigativa più importante del mondo, lo utilizza in missioni molto particolari. Soprattutto se, tra le altre cose, l'uomo in questione è anche uno specialista in "computer".  In un breve passaggio, lo stesso protagonista spiega:
"Don [...] a volte mi trova utile, poiché io non esisto.
E io non esisto ora perché esistevo nel tempo e nel luogo in cui abbiamo iniziato a mettere per iscritto la selvaggia melodia dei nostri tempi. Mi riferisco al progetto della Banca Dati Centrale e al fatto che io abbia avuto un ruolo significativo in quello sforzo di costruire un modello funzionante del mondo reale tenendo conto di ogni singolo individuo e di ogni cosa che accade."
Ambientate in un futuro molto prossimo (che con tutta probabilità il nostro presente ha già ampiamente sorpassato), le tre parti prendono toni spy story più che sci-fi, come invece sarebbe facile immaginare.
E nonostante la linea piatta delle trame, Zelazny riesce ad arricchire i propri scritti con una risoluta capacità di infarcire con verve e toni filosofeggianti e riflessivi tutte le lunghe parti dialogate.


Nel primo racconto, intitolato La vigilia di Rumoko, il nostro dovrà sventare una serie di attentati ad una nave sulla quale è imbarcato sotto falso nome proprio per indagare sulla possibilità di disordini. 
Nel secondo, sotto l'impronunciabile titolo 'Kjwall'kje'k'koothaill'kje'k (giuro! Ho copiato lettera per lettera), dovrà invece fare luce su un misterioso assassinio avvenuto al largo di un istituto oceanografico e attribuito ad un delfino e alla sua versatile intelligenza.
Ma è il terzo racconto, Il Boia torna a casa, a rendere celebre la raccolta di Zelazny presso i fan dell'autore americano (tanto da essere protagonista, su tutti, anche delle svariate cover nelle edizioni originali in paperback come quella qui sopra).
"Un telecommissionario è una macchina "schiava" comandata a distanza per operare in una situazione di feedback con il suo operatore."
E il Boia è proprio un telecommissionario, un'intelligenza artificiale costruita anni prima da un quartetto di scienziati per essere spedita nello spazio. Ma nello spazio vi si perse sfuggendo involontariamente a chi lo controllava. Ora, a distanza di anni, Il Boia sembra essere tornato sulla Terra per vendicarsi (forse) di chi gli ha dato i natali, colpevoli allo stesso tempo di averlo bellamente abbandonato al suo destino.

Ora non ti sto a spiegare i "come" o i "perché". Se ti interessa, procuratelo (ma mi sento di avvertirti che, anche se interessante da diversi punti di vista, il libro in questione non rientra di certo nel novero delle letture imprescindibili). Penso solo al fatto che anche se Zelazny non è certo stato il primo a cercare di rispondere ad un perenne quesito tanto caro alla fantascienza ("può un'intellingenza artificiale provare dei sentimenti?"), qui ha trattato il tema in modo sensibilmente originale, nonostanze l'assenza di particolari colpi di scena. Il tutto permeato da una visione delle cose abbastanza ottimistica e anticipando di concetto le parole di Sarah Connor alla fine del secondo Terminator: "Perché se un robot, un terminator, può capire il valore della vita umana, forse potremo capirlo anche noi."

O una cosa del genere, insomma.

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