L'Hotel Azzurro (The Blue Hotel, 1898) è il racconto breve più celebre dello scrittore e giornalista americano Stephen Crane, autore di due romanzi, Maggie: Ragazza di Strada e il più noto Il Segno Rosso del Coraggio, e di una memorabile raccolta di racconti, The Monster and Other Stories, tra le cui pagine comparve per la prima volta proprio questo racconto. Riconosciuto oggi come il migliore tra i suoi scritti brevi, L'Hotel Azzurro è entrato nel mito anche (e forse soprattutto) per via di una cattiva meningite cerebrospinale che decretò la prematura scomparsa di Crane alla giovane età di 28 anni.
Le edizioni Mattioli 1885 riportano alla luce l'opera in questione, stampata originariamente solo dalla Bietti di Milano nel 1973, e lo fa attraverso un agile libriccino da una settantina di pagine curato nella veste grafica con passione e armonia, com'è ormai prassi della casa editrice fidentina.
L'Hotel Azzurro parla di uno svedese, di un fantomatico uomo dell'est e di un cowboy che prendono temporanemaente alloggio presso un albergo dalle mura tinteggiate d'azzurro nello sconfinato e rurale Nebraska. Tra i protagonisti anche lo stesso albergatore, Scully, e suo figlio Johnny. La storia ruota intorno al misterioso svedese, uomo grande e grosso, dai modi spicci e dalla grassa risata che metterà in difficoltà tutti gli altri per via dei suoi continui sbalzi d'umore, ora in preda all'orrore, convinto che possa essere ucciso da qualcuno proprio in quel luogo abbandonato da Dio, ora generoso dispensatore di gratuite prepotenze.
Non ti sto a spiegare troppo della trama, che quelle settanta pagine, se vuoi, le fai fuori in un'oretta. La questione che mi preme sottolineare è che per quanto questo breve scritto di Crane (nella foto qui sopra) sia riuscito ad entrare nell'immaginario degli scrittori dell'epoca (questa stessa edizione raccoglie una bella e interessante testimonianza del grande Joseph Conrad), io, devo ammetterlo, dal basso della mia vigliacca ignoranza, ci ho trovato proprio pochissime cose degne di nota.
Colpa mia, ne sono sicuro (e quando uno si dà la colpa, sai bene che lo fa per non permettere agli altri di dargliela), ma nell'Hotel Azzurro non sono proprio riuscito ad entrarci. Le Edizioni Mattioli pazientemente spiegano:
"Affiorano qui i diversi e complessi temi sviluppati nei romanzi e in definitiva in tutta l'opera dell'autore: paura, emarginazione e intolleranza, miseria e isolamento, povertà e gioco d'azzardo, codardia e spavalderia eccessiva, fino ad un tragico epilogo."
Di tutti i temi sopracitati, però, io ci ho trovato solo il tragico epilogo e la spavalderia eccessiva. Un po' di codardia, anche. Tutto il resto nisba. Chiedo a te, che magari l'hai letto. Tu ci hai trovato davvero quell'emarginazione? L'intolleranza? La miseria e l'isolamento? Davvero una storia che vive in settanta scarse pagine e che parte da un treno (appena citato nella parte iniziale), un hotel e un saloon (solo in un paio di pagine nella parte finale) può toccare tutti questi argomenti?
Rispondo io: "certamente si". Ma a mio avviso l'Hotel Azzurro no, non tocca nessuno di quelli. Si tratta solo dell'assurda storia di un assurdo individuo (solo un tremolante impiastro, all'inizio), che cerca di rendere il soggiorno difficile agli altri senza un motivo apparente. E lo fa attraverso una serie di dialoghi piuttosto freddini che non permettono mai al lettore (che sono io) di entrare in quel maledetto hotel o renderlo partecipe di quella scazzottata appena lì fuori, poco prima che tutto prenda una brutta piega. I vari personaggi sembrano interagire tra loro solo perché sono chiusi nella stessa camera. Per il resto sembra che ognuno viva una storia diversa.
Ti dico la verità: non mi è nemmeno dispiaciuto, leggerlo. Ma mi aspettavo davvero altro. E non posso fare a meno di pensare che invece abbia ispirato molti altri autori a riprendere i fili del discorso. Come nel caso del recente omaggio da parte di Gianfranco Manfredi e Stefano Biglia in una breve (e bella) storia di Tex apparsa sul quarto Color Tex (omaggio che si limita ad una cortese citazione) o nel volume a fumetti Lo Svedese, dove il suo autore, il bravissimo cartoonist francese Christophe Gaultie, sembra approfondire molto di più l'aspetto tormentato, cupo e psicologico della storia. Più di quanto lo scritto originale non voglia suggerire, insomma.
Un applauso alle edizioni Mattioli lo faccio comunque. Se non li conosci, fatti un giro sul loro sito. Gli altri titoli della loro collana narrativa, meritano davvero parecchia attenzione. Anche se, devo proprio dirlo, dieci euro per questo libretto mi sembrano davvero tanti tanti tanti. Troppi.
5 commenti:
Mah Luigi, in realtà credo che la fama di Crane sia molto più "concettuale" che "sostanziale". Lo scrittore americano, infatti, ebbe la fortuna di far parte di quel manipolo di artisti capaci sul finire del 19° secolo di ridefinire la prosa spostandone le direttive dall'amore per la donna amata alle dinamiche tra uomini (che poi, volendo, è al tempo stesso la grandezza e la debolezza di buona parte del Romanzo USA: Washington Irving, Fenimore Cooper, Crane e financo il grande Mark Twain spostarono l'asse sul rapporto uomo/natura/vita di frontiera mentre nella vecchia europa Goethe rifletteva sul senso della vita attraverso le pulsioni affettive: da qui, ovviamente, la constatazione che il sesso e la donna siano stati a lungo il «grande rimosso» d'oltreoceano - prendi Melville, o Poe: ti risulta abbiano mai descritto relazioni con l'altro sesso? Sono però stati giganti nell'intessere trame virili, lo stesso, credo, si possa dire di Crane :-)
Per carità, qui non metto in discussione l'intera opera di Crane, anche perché non ho letto i suoi romanzi e in generale lo conosco poco. Questo racconto in particolare era pervaso, è il caso di dirlo, da un'aurea di unicità tra gli appassionati che mi ha spinto a leggerlo. E purtroppo non ci ho ritrovato le stesse cose. Soprattutto non ho ritrovato il "calore" nel trattare la trama di certi suoi colleghi quasi contemporanei, come lo stesso Conrad, tanto per citarne uno "piccolo piccolo".
Speravo in un tuo intervento. E avevo ragione ad aspettare, perché la differenza tra gli autori americani e quelli europei nell'affrontare i rapporti affettivi è prezioso su diverse chiavi lettura. Non ti nascondo che prenderò almeno "Il Segno Rosso del Coraggio" per approfondire l'argomento :)
@Luigi, mi piacerebbe fosse una mia teoria, ma in realtà questa "visione adolescente" della letteratura americana è al centro da decenni di una profonda discussione accademica: se pensi poi a come i miei adorati Faulkner e McCarthy trattano le donne nei loro capolavori (il primo in Santuario fa deflorare con una pannocchia la protagonista da un criminale impotente, il secondo poi non ne parliamo, sono davvero poche le donne nei suoi romanzi a non essere o puttane o pure rappresentazioni dell'oscuro:-) ti renderai conto che la sublimazione sessuale ha un suo perché (e infatti gli americani sono fa-vo-lo-si nel trattare il Male, sovente una vera e propria degenerazione di una affettività irrisolta) Vabe', complicato, non è la sede (e non voglio sembrare troppo "psicologista";-)))
Avevo capito che fosse argomento ampio già trattato altrove e oggetto di lunghissime discussioni ma, come hai dimostrato, ne sai parecchio più di me e tanto basta.
Sarà anche complicato, ma sarebbe un bel tema da esplorare più a fondo. Soprattutto dal punto di vista di uno come te, scrittore, si, ma anche amante di un certo tipo di letteratura che piace tanto anche al sottoscritto.
E se tu, una volta o l'altra, ci facessi un bel post?
Daidaidaidaidaidaidaidaidaidai!!!
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