22.5.15

Philipp Meyer, Il Figlio

Ho dovuto aspettare che l'entusiasmo per questo libro scemasse lentamente. Quando i pareri entusiastici si accalcano attorno ad un romanzo, mi viene d'istinto sentire puzza di carogna. Spesso mi sono dato ragione da solo con tanto di pacca sulla spalla (anche se, in realtà, comunque di una sconfitta si tratta). Ma fortunatamente non è questo il caso.

Quando l'anno scorso sugli scaffali delle librerie arrivò Il Figlio, in tanti ne parlarono bene osannando il suo autore, il quarantenne Philipp Meyer.
Meyer era già celebre per la sua opera prima, Ruggine Americana, che in Patria gli valse l'approvazione della critica tutta, gli sperticati e profetici elogi di eminenti colleghi e la nomina a Miglior Libro del 2009 secondo il New York Times. Ma come cantava anche Caparezza, "il secondo album è sempre il più difficile". E invece l'autore di Baltimora se ne esce con questo grandioso romanzo. Qualcuno con una competenza ben più pertinente della mia, lo ha semplicemente definito "Un.Fottuto.Signor.Libro". E aveva ragione.

Il Figlio è un'epopea familiare ricca di epica e di storia che attraversa quattro generazioni, dalla metà dell'800 ai giorni nostri. Quella dei McCullough è una ricca famiglia di petrolieri texani le cui radici affondano in un destino di sangue e miseria che non riuscirà mai ad essere davvero riscattato. Padri, figli e nipoti. Da Eli a PeterJeanne Anne, tre voci diverse come indole (e tre narratori di razza grazie a Meyer), ma simili in quanto personaggi costretti, ora da ignominiosi avvenimenti, ora dall'ossessiva ricerca di redenzione, a condurre e rivedere le proprie vite in modo diverso da come avrebbero voluto. Vite rubate da cose più grandi di loro, insomma. Mai come in questo caso, come si suol dire, i soldi non fanno la felicità.


Meyer è uno scrittore asciutto e crudo e un regista sublime che costruisce pedine di carne e sangue. Finirai per amare chi lui vuole che tu ami, ti farà odiare chi dovrai odiare, mentre cresci con i suoi figli di carta fino a renderti conto, a un certo punto, di essere presente in prima fila tra quelle pagine non solo come lettore, ma da vero e proprio spettatore.
"Dalle grandi praterie annerite da immense mandrie di bisonti, agli smisurati ranch di proprietà di un pugno di allevatori che regnavano come monarchi assoluti su schiere di vaqueros, al paesaggio arido e desolato punteggiato dalle torri dei campi petroliferi, la storia del Texas occidentale è la storia di un susseguirsi di massacri, la storia di una terra strappata di mano piú e piú volte nel corso delle generazioni. E inevitabilmente è anche la storia dei McCullough."
E proprio il Texas è uno dei veri protagonisti del romanzo. Uno Stato quieto e assolato di suo ma costretto, com'è noto, a vedersi calpestato dallo scorrere della Storia (quella con la "S" maiuscola) e da migliaia di altre storie diverse e dolorose (quelle personali e più intime, ma sempre comunque grandi). Tra queste pagine, di quei luoghi riuscirai a sentirne il profumo, a saggiarne la terra in un palmo di mano e a sentirne il sole cocente sulla pelle. E tanto basta per sancire la riuscita bellezza di uno dei romanzi più belli e solidi dell'ultimo decennio. E forse oltre.

Il Figlio è un romanzo superbo, insomma. Come il suo autore.

3 commenti:

sartoris ha detto...

Luigi, al mio paese si direbbe : "ah, ti ni sta bbieni allora!" (significa qualcosa come "vedi che avevo ragione io?" :-)

LUIGI BICCO ha detto...

Non c'era bisogno della traduzione. Mio suocero lo ripete spesso :)
E comunque si. Un gran bel classico, non c'è che dire.

La firma cangiante ha detto...

Segnato.

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